Ognuno di noi ha un sogno, già da piccolissimi preferiamo i giochi che si addicono maggiormente alla nostra personalità, che ci permettono di mettere in pratica le fantasie e ci fanno credere ch
e un giorno il gioco diventerà parte del quotidiano.
Io da piccola sognavo di fare la veterinaria. L’amore per gli animali e il rispetto totale per la natura mi portavano a sperare che avrei potuto aiutare i miei amici a quattro zampe per professione. Negli anni del liceo la passione per la natura è rimasta e si è arricchita di conoscenze sui processi che mi circondavano e che finalmente potevo, oltre anche ammirare, capire. La voglia di comprendere ed interpretare i fenomeni mi ha spinto ad appassionarmi sempre di più alla scienza al punto di scegliere biotecnologie come facoltà universitaria.
Così è iniziata la mia avventura di aspirante ricercatrice. I laboratori universitari mi hanno aperto un mondo che fino a quel momento avevo ignorato: la sperimentazione animale. Come potevo conciliare il mio infinito amore per gli animali con il loro utilizzo a scopo scientifico?
Non è per niente facile per uno studente sottrarsi all’obbligo di visitare gli stabulari o di assistere a certi filmati che illustrano i protocolli sperimentali. In principio mi sono un po’ autoconvinta ripetendomi che se la scienza deve progredire è necessario passare per certi sacrifici. Continuavo a ripetermi: “Se avessi un figlio malato sarei grata ai ricercatori di aver messo a punto delle cure anche se queste fossero derivate da esperimenti in vivo.” Ho continuato il percorso cercando di scegliere laboratori in cui l’utilizzo di cavie era scarso o assente ed era maggiore l’uso di campioni di derivazione umana. Il crollo delle mie convinzioni è arrivato inesorabile quando ho cominciato il dottorato. Ho assistito impotente a barbarie inaudite e assurde. Avevo ormai acquisito conoscenze sufficienti per capire che nella maggior parte dei casi i modelli animali sono ricreati in modo totalmente artificiale, non c’è nulla di fisiologico e in ogni caso nulla che avverrebbe con le stesse modalità nell’organismo umano quindi i risultati sono fuorvianti se non addirittura falsati.
Ho visto poveri topini venire continuamente accoppiati tra loro fino a generare progenie deformata dalla consanguineità, ratti lesionati a livello cerebrale per causare alterazioni che simulassero malattie neurodegenerative, animali perfusi mentre il loro cuore batteva ancora. È vero conoscevo le pratiche sperimentali perché più volte, leggendo i materiali e metodi degli articoli specializzati, ne avevo studiato i dettagli, ma vederli con i miei occhi era diverso e cancellava finalmente quell’assurda autoconvinzione. La cosa peggiore è stata rendermi conto che questi orrori avevano spesso come unica finalità la pubblicazione di articoli che potessero aumentare la notorietà del laboratorio garantendo altri finanziamenti con cui svolgere nuovi esperimenti fini a se stessi. Mi rendevo sempre più conto che i risultati importanti erano pochissimi e quasi sempre derivavano da esperimenti condotti su biopsie umane o colture cellulari.
Non ho portato a termine il dottorato. Davanti a certe cose la passione viene meno ma sono contenta di aver vissuto questa esperienza perché oggi posso affermare con consapevolezza e conoscenza che la vivisezione è una tortura di cui la scienza può benissimo fare a meno. Mi auguro che presto sempre più ricercatori investano capacità, fondi e passione nello studio di metodi alternativi.
F.P.
http://www.canefedele.com/lettera-di-unaspirante-ricercatrice-pentita/
Io da piccola sognavo di fare la veterinaria. L’amore per gli animali e il rispetto totale per la natura mi portavano a sperare che avrei potuto aiutare i miei amici a quattro zampe per professione. Negli anni del liceo la passione per la natura è rimasta e si è arricchita di conoscenze sui processi che mi circondavano e che finalmente potevo, oltre anche ammirare, capire. La voglia di comprendere ed interpretare i fenomeni mi ha spinto ad appassionarmi sempre di più alla scienza al punto di scegliere biotecnologie come facoltà universitaria.
Così è iniziata la mia avventura di aspirante ricercatrice. I laboratori universitari mi hanno aperto un mondo che fino a quel momento avevo ignorato: la sperimentazione animale. Come potevo conciliare il mio infinito amore per gli animali con il loro utilizzo a scopo scientifico?
Non è per niente facile per uno studente sottrarsi all’obbligo di visitare gli stabulari o di assistere a certi filmati che illustrano i protocolli sperimentali. In principio mi sono un po’ autoconvinta ripetendomi che se la scienza deve progredire è necessario passare per certi sacrifici. Continuavo a ripetermi: “Se avessi un figlio malato sarei grata ai ricercatori di aver messo a punto delle cure anche se queste fossero derivate da esperimenti in vivo.” Ho continuato il percorso cercando di scegliere laboratori in cui l’utilizzo di cavie era scarso o assente ed era maggiore l’uso di campioni di derivazione umana. Il crollo delle mie convinzioni è arrivato inesorabile quando ho cominciato il dottorato. Ho assistito impotente a barbarie inaudite e assurde. Avevo ormai acquisito conoscenze sufficienti per capire che nella maggior parte dei casi i modelli animali sono ricreati in modo totalmente artificiale, non c’è nulla di fisiologico e in ogni caso nulla che avverrebbe con le stesse modalità nell’organismo umano quindi i risultati sono fuorvianti se non addirittura falsati.
Ho visto poveri topini venire continuamente accoppiati tra loro fino a generare progenie deformata dalla consanguineità, ratti lesionati a livello cerebrale per causare alterazioni che simulassero malattie neurodegenerative, animali perfusi mentre il loro cuore batteva ancora. È vero conoscevo le pratiche sperimentali perché più volte, leggendo i materiali e metodi degli articoli specializzati, ne avevo studiato i dettagli, ma vederli con i miei occhi era diverso e cancellava finalmente quell’assurda autoconvinzione. La cosa peggiore è stata rendermi conto che questi orrori avevano spesso come unica finalità la pubblicazione di articoli che potessero aumentare la notorietà del laboratorio garantendo altri finanziamenti con cui svolgere nuovi esperimenti fini a se stessi. Mi rendevo sempre più conto che i risultati importanti erano pochissimi e quasi sempre derivavano da esperimenti condotti su biopsie umane o colture cellulari.
Non ho portato a termine il dottorato. Davanti a certe cose la passione viene meno ma sono contenta di aver vissuto questa esperienza perché oggi posso affermare con consapevolezza e conoscenza che la vivisezione è una tortura di cui la scienza può benissimo fare a meno. Mi auguro che presto sempre più ricercatori investano capacità, fondi e passione nello studio di metodi alternativi.
F.P.
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